Ascoltare Medea per capire il nostro tempo

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Caro direttore,

una forza sconosciuta ci spinge verso il basso, travolti da un linguaggio musicale inatteso, modernissimo. Incollati alla poltrona siamo difronte a quella che Brahms riteneva la “vetta suprema della musica drammatica”, alla partitura che volle con sé nella bara. In uno stato di ipnosi assistiamo al rinnovarsi di uno dei drammi più antichi e complessi della storia della letteratura: Medea, la traditrice tradita. Medea, assassina dei figli. Medea, la maga che uccide le nostre ultime certezze.

Come bambini colti da un temporale inatteso, impreparati e improvvisamente bisognosi di un rifugio, così ci coglie questa Médée milanese. Alla Scala Medea non si dava dal 1962, né mai period stata eseguita nell’originale francese. L’imperativo è dimenticare la Callas, dimenticare pepli e capitelli. La vera Medea di Cherubini e Hoffmann, questa magnifica e terribile Médée di Damiano Michieletto, va oltre Euripide. Ritroviamo qui le molte Medee di Ovidio, la Medea monodimensionale di Seneca, la eco della rivisitazione del mito che fece Pavese nei suoi Dialoghi con Leucò. Ma la cruda verità è che in scena, stavolta, ci siamo noi.

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La possibilità di rivedere in ogni momento noi stessi, di ritrovarci, è prerogativa quasi esclusiva dei classici, è requisito fondativo della tradizione orale che presiede lo sviluppo del mito nella Grecia arcaica. Ma abbiamo dimenticato: eravamo, siamo, per dirla con Montale, troppo presi nell’affanno delle coincidenze, delle prenotazioni, delle trappole, degli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede.

In Euripide lo scontro tra Giasone e Medea è, in ultima analisi, lo specchio della frizione che si registrava nella Grecia del V secolo tra il relativismo del tempo e i valori non negoziabili della cultura arcaica. Uno scontro da cui nessuno usciva vittorioso. È la stessa polverizzazione di valori che ritroviamo oggi nella geniale regia di Michieletto: il presente, il nostro presente, non ha punti di riferimento. Non più. Ed ecco che, difronte advert una società dimentica dei propri confini, allergica advert ogni stabilità, incapace insomma di darsi salvezza, ecco che evaluate Medea. È il gorgo del teatro d’opera, caleidoscopio permanente del nostro essere uomini. Colti d’improvviso dalla tempesta restiamo attoniti, come disorientati. Medea (come Don Giovanni d’altronde) rifiuta di venire a patti con sé stessa: la sua intima e terribile coerenza ci spaventa, ci mette senza sconti difronte alle nostre umane contraddizioni. Il suo gesto così innaturale, così poco umanamente comprensibile, ci spiazza.

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Nella tragedia i greci non cercavano il giudizio, ma strumenti per la comprensione dei fenomeni; il mito period funzionale a generare consapevolezza attraverso la narrazione del trauma. Abbiamo dimenticato. La nostra società ignora, anzi fugge, il valore catartico del dolore: è troppo pronta a credere, a giudicare, a spettacolarizzare, divenuta incapace di capire, di elaborare, di metabolizzare. Nella nostra cassetta degli attrezzi ormai mancano gli strumenti per radicare una comprensione poco più che superficiale, o magari ci sono pure, ma sono in fondo, sono arrugginiti, sono pesanti, e insomma, è troppo faticoso non solo utilizzarli, ma anche cercarli. Difficile insomma andare oltre una patina di rugiada. Ed ecco allora la paura come reazione: una società liquida rifiuta la presenza di una identità forte. Rifiuta un gesto come quello di Medea. Paralizzati, bagnati, intirizziti da un vento freddo ci accorgiamo troppo tardi che con i propri figli Medea uccide anche quel briciolo di certezze rimasto. Siamo nudi difronte al reale e alle nostre debolezze. Aveva ragione, ancora una volta, Montale: forse solo chi vuole s’infinita. Gli altri scenderanno nel gorgo, muti. Giasone con loro.

L’autore è sottosegretario al ministero dell’Economia

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