La scomparsa di Salvatore Piscicelli, autore dalla personalità inconfondibile e che sarebbe riduttivo includere, sia pure come capostipite, nella cosiddetta “scuola napoletana” composta da registi così diversi l’uno dall’altro che riesce difficile per me metterli in uniforme, mi ha molto addolorato. È stato più di un amico, anche perché facevamo parte di quella schiera di debuttanti della nice degli anni Settanta, che hanno condiviso pageant, viaggi, apprensioni, gioie, riconoscimenti e alti e bassi inevitabili in ogni carriera. Anni che col senno di poi sembrano perfino l’età dell’oro, ma sono stati anche aspri e difficili, soprattutto per un autore coerente e ostinato come lui è stato.
Fu tra i primi advert autoprodursi sull’esempio di Moretti, essendo per lui impossibile venire a patti con le opzioni riduttive del cinema (e poi della televisione) che negli anni Ottanta e Novanta hanno inquinato la nostra cinematografia, rendendo quelli che hanno resistito impavidi quasi degli eroi. Un amico col quale si parlava di movie, di passione e innamoramenti per questo o quell’autore, dei grandi classici, dell’ultimo libro letto o scritto, e non solo di soldi o organigrammi ministeriali.
Il suo sodalizio con Carla Apuzzo ci ha dato opere che resteranno, movie, come si cube oggi, “seminali”, capaci di fornire esempi e indicare strade a generazioni che sarebbero sbocciate molti anni dopo il suo debutto. A lei tutta la mia amicizia e il mio rimpianto.