MILANO – Ciao alieni, siamo qui, ci vedete? Puntini luminosi che scintillano a intermittenza, glitter digitali – una folla che diventa paillettes umana, grazie ai braccialetti distribuiti all’ingresso, mentre il sole è ancora feroce su Milano. Adesso, nel crepuscolo che si stiracchia, si estenua, Taylor Swift gigantesca su led luccica anche per through del sudore nell’incavo del collo. Questa luminescenza ricaricabile deve essere uno dei segreti della star planetaria che ora cammina sicura sul tetto muschiato di una casa boschiva spuntata sul palco. E cube che si è sentita come un vecchio cardigan sotto il letto di qualcuno. E il sorriso glitterato? È sempre tempo di rianimarlo, di dare a intendere che c’è un’altra stagione, migliore, un’altra period di noi.
Incantesimo Taylor Swift
di Carlo Bonini (coordinamento editoriale), di Massimo Basile, Anna Lombardi, Carlo Moretti, Andrea Silenzi e Serena Tibaldi. Coordinamento multimediale Laura Pertici. Produzione Gedi Visible
Eras, d’altra parte, è il titolo di questo tour fuori dall’ordinario, un bilancio, un ricompattamento della sua breve lunga carriera. La ragazzina che va a Nashville e ora è dove nessuno è mai stato prima, ovvero dappertutto: più di un americano su due si dichiara suo fan; e ora anche il tassista che mi porta a San Siro (“Tutti lì andate oggi?”). Anche la commessa della pizzeria della stazione, anche i direttori dei giornali, e anche mia zia sa chi è Taylor Swift.
Quando catta Betty, la storia di uno che ha tradito ma non voleva tradire e allora si pente e torna sotto casa della ragazza e le chiede se deve andare a fanculo, forse sì, ma period solo una cosa estiva, e allora le cube: so che mi manchi, ma le cube anche: ho solo diciassette anni, non so niente, quando canta questa frase succede qualcosa. Sì d’accordo, è una canzone pop, eppure riassume ottomila romanzi, venticinquemila movie, non necessariamente d’amore. È una verità inoppugnabile, e la conosci se hai avuto diciassette anni. E chi li ha al momento piange, e piange chi li ha appena avuti, e piange chi se li è lasciati alle spalle da un po’: la collega accanto di cui non so il nome, che fa una puntuale diretta social, si interrompe per prendere un fazzoletto per asciugarsi le lacrime.
Lei, Taylor, suona il suo pianoforte muschiato, delicata; e fa la faccia di chi è stupito dall’entusiasmo, dalle urla, che quindi salgono: Taylor Taylor Taylor, al punto da rompere i timpani. Resta motionless nel suo abito rosso, e congiunge le mani davanti al viso. Come se l’emozione di stanotte fosse diversa, inusitata. Separa le mani, e una la porta al cuore. Là deve restare, cari alieni, se si vuole capire qualcosa di Taylor Swift. Sì, va bene, i punti di Pil che muove, va bene anche che se volesse porterebbe Biden a fare l’atteso passo indietro, o a vincere nonostante tutto, forse; va bene l’economia e va bene la sociologia, ma chi canta-urla con lei le sue canzoni, partecipa a un romanzo corale, a un esperimento universale di autofiction cantata. Vale qualche dozzina di Pulitzer, di Goncourt e di Strega, perché “Mi chiamerai quando torni a scuola?” è una domanda che chiunque sia stato vivo in forma umana ha fatto a qualcuno/a. Magari dopo un agosto scivolato through troppo in fretta. Sapete, alieni, quelle storie d’amore che sbocciano nel tempo di una vacanza? Incontriamoci dietro al centro commerciale. Ricordi quando ti dissi sali in macchina?
Possibile, come usa dire, che si tratti di un disco incantato, ma l’aggettivo funziona a più livelli: gira a loop sulle stesse word (confessavano due swifties che, in treno verso Milano, hanno parlato tutto il tempo di lei, che ha a volte ti accorgi in ritardo di quale canzone stia cantando). Non basta: incantato perché gira a loop nella stessa dimensione emotiva, con una ossessività gentile che è propria degli innamoramenti adolescenziali o appena submit. Quando il mondo coincide con la tua cameretta, quando la frase che a un certo punto lei esibisce stampata su una t-shirt è quella che ripeti mentalmente per l’intera giornata: “Scommetto che stai pensando a me”. Sentite, alieni, lo so che tocca crescere, abbandonare queste melensaggini, ma forse no. O non stasera mentre annotta, mentre tutti hanno al massimo diciassette o ventidue anni, come cube un’altra canzone.
L’interprete morale dirà che è il segno di un vizio, di una regressione, di una collettività infantiloide e nostalgica, nostalgica anzitempo e per sempre. Non è detto che abbia torto, ma il fatto è che Taylor Swift deve aver capito meglio di altri che non di una generica educazione sentimentale bisogna nutrire gli spiriti, ma “sbloccando” ricordi, offrendo pane per i denti di chi vuole masticare e rimasticare amori estivi, rimestare nelle delusioni, mandare al diavolo tutti gli ex, spuntando i nomi nella lista, mandarli al diavolo un po’ piangendo, un po’ ridendo, un po’ facendo quelle smorfie che fa lei quando si bacia il bicipite contratto, o sfoggia lo sguardo tronfio di chi si sente padrona della propria vita.
Non è aggressiva, non è darkish, semmai malinconica; non è “maledetta” come quelli che raggiungono a stento i 27. È femminista? “Stasera mi destiny sentire come un uomo”. Lo ripete a ogni tappa. È attractive ma con prudenza: poco cube qualcuno, sì poco, o quel poco che basta a non tradire troppo il modello principessa Disney. Supereroina buona, compagna di scuola. Compagna di scuola di cui ti sei appena innamorato. Che on line casino. La verità, alieni, è che siamo tutti diciassettenni invecchiati male.