Oliver Stone, conversazioni con Lula: a Cannes il ritratto del chief brasiliano. “I documentari raccontano le persone, i registi a Hollywood hanno perso il contatto con la realtà”

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Incontriamo Oliver Stone sulla terrazza di un resort qualche minuto dopo la sentenza sull’estradizione di Assange. Ma, per il regista, non è una buona notizia: “No, perché Julian resta in prigione. E questo non è buono. Dovrebbero lasciare andare, liberarlo. Ha una moglie, dei figli. E’ una cosa folle, se fosse stato estradato sarebbe stato un fottuto scandalo e penso che Biden sarebbe stato costretto a perdonarlo. Ma così resta in una terra di mezzo ed è la cosa peggiore che potesse capitare. Restare in prigione in Inghilterra. No, questa non è una soluzione, è una miseria”. Il regista americano, che da tempo consegna al cinema una serie di interviste ai chief, giudicate a volte fin troppo compiacenti, in Lula esplora l’ascesa, la caduta e il ritorno trionfale di Luiz Inácio ‘Lula’ da Silva, la sua storia di primo presidente brasiliano di estrazione sociale popolare, il carcere sperimentato per diciannove mesi fino a tornare di nuovo alla guida del Paese.

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Oliver Stone (che co-dirige con Rob Wilson) ricostruisce – attraverso la cospirazione di Bolsonaro e del più importante giudice anticorruzione in Brasile – il lato nascosto dell’operazione anticorruzione ‘Automotive wash’ che ha portato Lula in carcere, con l’aiuto dell’hacker brasiliano le cui rivelazioni hanno permesso al presidente di tornare in libertà. Il doc mette in guardia sul crescente pericolo che il lawfare, la ‘strumentalizzazione politica della giustizia’, rappresenta per le nostre democrazie. Assange, come Snowden, sono evocati da Stone come gli eroi di questo tempo. Sotto accusa ci sono invece i burattinai americani e il loro ruolo per rovesciare i chief della sinistra dei paesi latino americani e, un po’ a sorpresa, l’atteggiamento protezionistico di Obama che ha portato Lula a considerarlo meno collaborativo di Bush. Il regista di JFK e Nato il 4 luglio ora progetta un nuovo movie di finzione.

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Il lawfare sembra l’evoluzione più sofisticata di una vecchia tattica per eliminare gli oppositori politici.

“Si, ma poiché oggi assume così tante forme numerous, per l’institution sembra un nuovo modo di sbarazzarsi di un candidato. Con il potere dei media, si ottiene anche il potere dei procuratori. Guardate l’America ora: è facile ottenere un mandato contro Trump o per Trump. E’ un vecchio trucco, basti pensare ai tempi in cui le corporazioni, che stavano diventando sempre più grandi, assunsero persone della classe operaia per dividerla: li pagavi meglio e loro prendevano i crumiri per entrare e rompere l’unione”.

Il doc su Lula ha avuto una gestazione lunga.

L’ho incontrato nel 2009, la prima volta, poi ho cercato di incontrarlo nel 2019, mentre period ancora in prigione. Stavamo cercando di intervistarlo dal carcere, e poi il mese in cui avevamo in programma di farlo è stato rilasciato, ed period in viaggio con la sua fidanzata, cercando di riavere una parvenza di vita normale. Poi è arrivata la pandemia, quindi abbiamo perso un anno. Abbiamo poi provato a intervistarlo di nuovo nel gennaio del 2021, a Cuba, e ha preso il Covid. Quindi ci siamo riusciti finalmente nel dicembre del 2021”.

Cosa l’ha affascinata di più di questo chief?

“La sua è una storia incredibile. Se si pensa alla politica moderna, quanti chief si conoscono che provengono dal sindacato? Non mi viene in mente nessuno che abbia un passato nella classe operaia, nemmeno nei presidenti africani. Penso che Lula dovrebbe avere un posto più grande sulla scena mondiale, ma non credo che gli Stati Uniti siano a suo favore, non credo che lo vogliano davvero intorno”.

Da “A sud del confine” su Chavez a “In search of Fidel”, lei ha incontrato da vicino i chief del Sud America. Perché le interessano così tanto?

Non sono un vero esperto di Sud America, ma sono d’accordo con le loro aspirazioni, soffocate dagli Usa. Gli Stati Uniti pensano di avere il diritto di intervenire in qualsiasi affare estero. Abbiamo invaso l’Iraq, vi ricordate? Schröder e Chirac si schierarono contro l’invasione americana. Sono stati ignorati”.

Pensa che la rielezione di Trump sia inevitabile?

“Non lo so. Non so davvero cosa succederà. E questo me lo rende interessante. Io sono per Kennedy (Robert Francis Kennedy Jr ndr). Penso che sia l’unico che stia dicendo la verità e che su molti argomenti abbia ragione. Ed è sicuramente un uomo di tempo. Mi preoccupo per l’America e sa, John Kennedy period stato l’ultimo presidente che parlava di tempo. E invece cos’è Biden? Ha definito Putin un delinquente quando è diventato presidente. Fin dall’inizio, ha tagliato fuori tutto ciò che riguarda la negoziazione e il dialogo”.

Sta preparando un nuovo movie. Lei parla spesso di raccontare la verità. Ci si arriva di più attraverso i drammi o i documentari?

“Entrambi. È diverso perché nei movie devi condensare molte informazioni, ma deve essere vero nell’anima. JFK non è sempre letterale, eppure sembra la verità. Ho sempre cercato di girare i miei movie nel modo più realistico possibile, con i piedi per terra. Ma i documentari sono fantastici, sono più veloci. E inoltre, hai accesso a persone reali. Se vivi solo a Hollywood, sei immerso in un mondo artificiale, tutto trucco e attori. Tanti registi di Hollywood hanno perso il contatto con la realtà, raccontano qualcosa di lontano dalle persone reali, che non conoscono più”.

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