Marco D’Amore, il viaggio di ‘Caracas’ tra Islam ed estrema destra. “Solidale con i ragazzi manganellati a Pisa”

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Marco D’Amore consegna il suo nuovo movie da regista, Caracas. Tratto dal romanzo di Ermanno Rea Napoli Ferrovia, racconta di uno scrittore napoletano (Toni Servillo, eccellente) che si aggira in una Napoli che inghiotte e terrorizza, che seduce anche. Una città a cui è tornato dopo una lunga assenza, che lo affascina ma che non riconosce. Con lui c’è Caracas, un uomo che milita nell’estrema destra e che sta per convertirsi all’Islam, alla ricerca di una verità sull’esistenza. Lo scrittore è testimone dell’amore impossibile tra Caracas e Yasmina (Lina Camelia Lumbroso) attraversando una città dove tutti sperano nella salvezza, di aprire gli occhi dopo l’incubo in un giorno luminoso.

Scritto con Francesco Ghiaccio, Caracas esce in sala il 29 febbraio, è prodotto da Picomedia, Mad Leisure e Imaginative and prescient Distribution. L’incontro con Marco D’Amore è sul terrazzo di un Resort con affaccio su piazza Barberini a Roma.

Caracas parte da un romanzo scritto nel 2007, quindi tempo fa, che però sembra avere le doti di fotografare il presente.

“Questo è nella capacità degli autori di intercettare non solo il presente ma proprio il futuro, di capire quali sono le risacche nella nostra società che cominciano a bollire e di cui si sentono i presagi che si potrebbe si potrebbero avverare. Ermanno Rea con Napoli Ferrovia racconta di quest’uomo sospeso tra due macro mondi. Uno è quello della destra più violenta, più integralista e l’altro invece quello di una comunità musulmana che a Napoli, ma anche in tutto il resto d’Italia, comincia a far sentire la propria presenza e in cui questo personaggio a un certo punto si sente accolto quando cube di sé di non potersi più chiamare occidentale, quindi di aver bisogno di guardare advert un altro mondo per ritrovare se stesso”.

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Il mondo dell’estrema destra dei nazisti e quello dell’Islam, apparentemente lontani, invece si conciliano in un unico personaggio.

“Questo essere umano ha bisogno di trovare una comunità che lo accolga, di sentirsi parte di un contesto, di non patire quotidianamente questa solitudine in cui è immerso. L’autore aveva bisogno di questi due enormi mondi affinché il personaggio potesse esprimere al massimo tutte le proprie emozioni, il proprio fanatismo, il proprio amore, la propria ricerca di identità, la propria ricerca di spiritualità, di luce, come cube lui, la luce di Dio. E ovviamente intercettando secondo me quello che stiamo vivendo oggi cioè un presente fatto appunto di estremismi che rasentano il fanatismo”.

Cos’è Napoli in questo movie, cos’è Napoli oggi per l’Italia?

“Rispetto alla rappresentazione della città in questo movie parto da due assunti: uno è legato strettamente al romanzo dove è evidente che Rea osserva la città con gli occhi di chi non la riconosce più e quindi già questo lo mette in una condizione di smarrimento. Ritorna nel quartiere in cui è vissuto che è una città-mondo che potrebbe ricordare una banlieue francese, un barrio sudamericano. E poi io ho dovuto fare i conti, come è giusto che sia, con il fatto che negli ultimi dieci anni è stata stra raccontata al cinema e dalla televisione, anche dal cinema internazionale, quindi avevo il desiderio di dimostrarla in anfratti che le persone non conoscono, di portarla in profondità e soprattutto di restituire allo spettatore, più che un racconto geografico della città, questo luogo quasi come se fosse un posto della coscienza, un luogo emotivo. Io ho definito la mia Napoli di Caracas una sorta di purgatorio in cui i personaggi stanno in attesa di giudizio. E poi, secondo me la città è in grande fermento. È tanto tempo che è diventato un centro di interesse non solo turistico perché è esploso, ma anche per chi racconta”.

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Cosa pensa della polemica Geolier a Sanremo?

“Gli ho scritto: ti dirò una cosa fondamentale che non sta nella polemica ma in qualcos’altro per me fondamentale. Io non mi sono goduto nulla di Gomorra, non mi sono goduto il successo strepitoso, la bellezza che sta dietro la popolarità, l’affetto della gente. Perché nonostante tutto questo c’è sempre stata una cappa di polemiche, di sovra temi che mi hanno fatto pensare solo alla responsabilità verso la città e le cose che raccontavo. Questo è sbagliato. Così come è sbagliato che un ragazzo di vent’anni vada a cantare una canzone – che è stata selezionata, non che lui ha imposto – e che si debba sentire domande del tipo hai rubato, hai defraudato, hai offeso. Secondo me tutto quello che riguarda Napoli in qualche modo è sempre troppo ed è sempre troppo per chi la racconta. Non si dovrebbe mai perdere la leggerezza che deve stare anche dietro una canzone, un movie, un libro. Nessuno si permetterebbe di contestare advert Angelina Mango, che io adoro e sono stra felice abbia vinto, dicendo che la canzone è noiosa o che ha portato suo padre sul palco – cosa meravigliosa. Si può criticare sempre, però nei nostri confronti c’è sempre qualcosa in più, di cui farsi carico, da mettersi sulle spalle e questo dopo un po’ diventa pesante. Io me ne sto liberando ora a 42 anni, ma non mi sono goduto un giorno di quell’esperienza e questo è brutto. Perché period come se mi sentissi in colpa di godermi la bellezza di quello che mi period capitato. Geolier deve essere felice di aver fatto un bellissimo Sanremo, di aver portato la sua poetica sul palcoscenico, di essere arrivato secondo su 30 artisti. Perché deve caricarsi solo la la negatività di quell’esperienza e non può essere felice leggero nei suoi vent’anni, perché?”.

Perché Napoli deve deve appunto fronteggiare tutto questo?

“Da una parte noi abbiamo tante cose detrimental. Che sono sotto gli occhi di tutti e sono sempre giustamente raccontate. Però abbiamo anche delle cose strepitose in cui esplodiamo e ce lo dovete concedere, perché siamo bravi a fare quella roba. E’ forse una reazione alle brutture che ci circondano. E allora cantiamo e scriviamo, facciamo movie e siamo sulla scena teatrale da 100 anni, in un determinato modo, perché ne abbiamo bisogno ed è lì che riusciamo a trovare il modo per esorcizzare tutto quello che che non ci sta bene, che ci fa patire. Però mi rendo conto che tutta questa proposta perché è enorme a volte può dar noia, può dar fastidio può generare invidia”.

Lei ha esplorato da ateo il mondo delle moschee e la comunità musulmana.

“Ho compiuto un viaggio da ateo, rimanendo convintamente ateo. Però è stato un bellissimo viaggio in una cultura che non conoscevo, da cui ho preso tanto, capito molto di più rispetto a tanti pregiudizi che avevo maturato nel tempo. Oltre alla moschea ho frequentato un po’ la comunità e quindi mi sono imbattuto in tradizioni, usanze, comportamenti completamente diversi dai nostri. E soprattutto, devo dire, mi ha toccato il silenzio. Che permea il loro modo di avvicinarsi a Dio, con cui hanno un rapporto assolutamente verticale. Questa è la profonda differenza. Non può esserci giudizio di alcuno nel loro rapporto con Dio. E poi devo dire che nonostante le reticenze che avevano nutrito, volendo capire come li avrei rappresentati, sono stato accolto con con grande entusiasmo: mi hanno fatto entrare nelle case, ho mangiato con loro, mi hanno insegnato a pregare, mi hanno spiegato cosa fossero le abluzioni. E ho avuto come guida Massimo Abdallah Cozzolino, che è l’imam della moschea di Napoli, una persona veramente illuminata. Uno degli aspetti più belli che ti offre il nostro mestiere è di conoscere cose che non conosci e di avvicinarti a mondi da cui forse staresti lontano anni luce. E con cui è bello fare i conti e anche perché rappresentano il nostro presente”.

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E del mondo della destra estrema cosa ha scoperto?

“Ho scoperto persone average e persone completamente perse nel fanatismo. Disposte a qualunque cosa, anche alla violenza, alla prepotenza, alla sopraffazione. Tutto questo enunciato anche con con pacatezza, però con una febbre negli occhi che mi ha spaventato. Soprattutto perché secondo me questo fanatismo è nelle città del nostro Paese, nei luoghi in cui c’è povertà, pochi mezzi per poter vivere la vita in un certo modo. Il pericolo è proprio questo, cioè che si perdano in questo mito per cui il problema è sempre l’altro, la diversità, quello che viene da fuori. E però fuori non è solo fuori dal Paese, ma anche fuori dalla porta di casa, a un certo punto fuori dalla porta del bagno. C’è sempre un fuori, e questo è pericoloso. I nostri amministratori dovrebbe essere molto attenti: devono condannare certi episodi di violenza che mi sembra con una certa frequenza comincino a ripetersi nel nostro Paese”.

L’ultimo episodio riguarda gli studenti manganellati a Pisa.

“Ovviamente a quei ragazzi va tutta la mia solidarietà e mi sono sentito in colpa di non aver preso anch’io qualche manganellata con loro perché noi dovevamo stare tutti lì, a prenderle insieme a loro. Penso a quello e quindi alla legittimazione di certe azioni delle forze dell’ordine, che invece devono tutelare. Questa è la bellezza del loro lavoro. Il mio migliore amico, con cui sono cresciuto, con cui ho iniziato a fare teatro, diplomato in violino, oggi è un grandissimo funzionario della polizia. E io quando lo vedo esercitare il suo lavoro, capisco qual è la bellezza di quel mestiere. Però quando quel mestiere diventa invece sopraffazione, per me è peggio della criminalità. È meno giustificabile di chi delinque, perché quel comportamento non ha ragione d’essere ed è pericoloso”.

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