Fenice, con ‘Les contes d’Hoffmann’ Damiano Michieletto porta in scena le illusioni d’amore

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L’opera più inafferrabile, ambigua e affascinante del romanticismo melodrammatico ama spargere dubbi e suscitare “interpretazioni” in chi la ascolta ma non ammette dubbiosi tra gli interpreti.

Les contes d’Hoffmann, capolavoro di poco (cinque mesi) postumo di Jacob -Jacques Offenbach, il creatore e dominatore dell’operetta francese (cento titoli in poco più di trent’anni), ha festosamente aperto la stagione del Teatro la Fenice. Grande serata, calorosa accoglienza al presidente della Repubblica Sergio Mattarella che con la sua figura ha interpretato ciò che sarebbe spettato al ministro della Cultura: far sentire l’interesse dello Stato per il lavoro dei teatri d’opera che non sono la Scala. Soprattutto in un momento caldo, di legittime proteste – sospese con molto buonsenso nella serata inaugurale – per un contratto di lavoro scaduto da decenni. Pare che il presidente Mattarella abbia detto di «essersi divertito».
Segno che ha colto in profondità lo spirito dell’opera che nei suoi cinque quadri accumula caratteri contrastanti, dal tragico al comico, dal dramma intriso di satanismo all’avanspettacolo: non eludendo alcuna gradazione intermedia.

L’opera “seria” offenbachianamente cammina lieve e con ironia. Facendo leva, perfino nei momenti di maggiore allineamento col linguaggio tradizionale dell’operismo di quegli anni – siamo nel 1881 – sul gusto per la parodia sociale e individuale esercitata nelle operette. Dietro ogni dramma del protagonista, in progressivo imbruttimento morale e sentimentale – lo storico Theodor Hoffmann, scrittore tedesco di racconti idolatrati (e imitati) dal mondo culturale francese che vi riconobbe la “sua” concept di romanticismo moderno, svincolato dalle brume scozzesi di Walter Scott – c’è il grottesco. Ogni disperazione e frustrato innamoramento fa affiorare il cinismo d’autore. Dietro le tre/quattro grandi avventure amorose del sognatore s’annida l’concept ‘morale’ che un poeta vero può solo decidere di vivere (scrivendo versi) o di morire (ubriacandosi). È quanto viene raccontato nell’epilogo dell’opera. La Musa consola il suo adepto, le “voci invisibili” intonano una sorta di toccante morale («L’amore ci fa grandi/ma più grandi ci fa il pianto»): lo spettacolo di Damiano Michieletto rincara la dose.

Silenziosamente, attorno a Hoffmann (svenuto, morto, stordito dall’alcol?) si radunando i protagonisti dell’opera, che sono anche i personaggi dei suoi racconti: un’affettuosa commemorazione e insieme un gesto di gratitudine per essere stati creati. Teatro immediato e profonda commozione. Gioca in più occasioni con le emozioni primarie la produzione nata per l’Opera di Sidney ma ripensata per Venezia. Advert esempio, raddoppiando la “malattia” funesta di Antonia (muore se canta), in modo da renderla più fisicamente straziante e insieme poetica, facendone una ballerina bloccata sulla sedia a rotelle. La lettura scenica accumulativa e ‘coreografica’, poggia su un impianto narrativo che – fatte salve le solite considerazioni filosofico-registiche («un viaggio nel tempo, uno sguardo nelle various età della vita del protagonista: il bambino, il ragazzo, il giovane uomo già disilluso») – si affida all’eccentricità e al divertimento, senza troppi retropensieri.

Le scene di Paolo Fantin sono ingegnose geometrie variabili: architettoniche scatole magiche, da cui scendono strumenti e grandi numeri, salgono cose, si aprono stanze sospese, pareti-specchi e finte tappezzerie, scomparizioni e prestidigitazioni, ma anche solenni come nel meraviglioso salotto di piacere di Giulietta. Ha mano lieve e gioiosamente scatenata Carla Teti nel vestire i pittoreschi personaggi: dagli irresistibili capri-diavoli e ballerini-servi di scena del “cattivo”, il Niklausse-Papageno, le bambole-automi di Spalanzani. Tessuti e fogge in libertà poetica e motivata, perfino una tavolozza intera di colori per il trampolinista. Il cavanserraglio scenico ovviamente comprende, per l’avvio dell’iniziazione del protagonista, un’aula di scuola (piccolo tic di Michieletto) ma la “ridda matematica” sovrapposta alla deflagrazione virtuositica di Olympia è un altro colpo di interpretazione teatrale ben assestato alla vulcanica bizzarria che imperversa nella musica dell’“opera fantastica”.

Peccato che la linea euforica e poetica di palcoscenico, assecondando un’interpretazione chiassosa e popolaresca del “fantastico” colto inteso da librettisti e compositore – peraltro ben interpretata, in voce e presenza attoriale magnifica dalla compagnia di canto: Ivan Ayon Rivas, Alex Esposito, Rocío Pérez, Carmela Remigio, Véronique Gens, Giuseppina Bridelli, Paola Gardina e Didier Pieri – non corresse in parallelo con l’esecuzione musicale.

Chiamato a show iniziate Frédéric Chaslin, primatista dei Racconti di Hoffmann, non modifica la sua visione offenbachiana “romantica”. Commisurata alle tinte e all’enfasi operistica derivata dall’adozione dei recitativi orchestrati di Ernst Guiraud.

La direzione è colorata ma greve e strepitante. Senza che il continuo deragliare tra comico e tragico delle idee di Offenbach sia accompagnato da congrui ritocchi nella concertazione. Accurata e competente, come si conviene a un musicista che i Racconti li ha diretti oltre settecento volte (il suo primo a Venezia, nel 1994), la condotta direttoriale è poco elettrica. Orientata dai modelli melodrammatici francesi coevi (Massenet più che Gounod) invece che dalla ‘rivoluzionaria’ drammaturgica in stile opéra-comique della recente Carmen di Bizet.

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