Stefano Bollani: “Ecco il mio concerto di improvvisazione totale. Adoro tradire la scaletta”

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L’esatto opposto di un concerto-karaoke. Tra tanti tour estivi ce n’è uno decisamente sui generis, di un’unica knowledge e, per giunta, quasi tutti i brani in scaletta sono ancora inediti. A scommettere su quello che potrebbe diventare un prossimo disco, “ma bisogna prima aspettare di vedere il giudizio del pubblico sui nuovi brani e anche il mio divertimento nel suonarli” avverte il suo autore, è il pianista, cantautore e compositore Stefano Bollani. Il concerto si intitola “Piano solo” e Bollani lo porterà venerdì 26 luglio all’Auditorium “Ennio Morricone” di Roma per la rassegna “Roma Summer season Fest 2024”. Musicista tra i più raffinati che l’Italia possa vantare, conduttore televisivo e radiofonico, grande comunicatore della musica in tutte le sue various manifestazioni, Bollani è noto al pubblico anche per il programma che conduce insieme a Valentina Cenni intitolato By way of dei matti n° 0.

Bollani, sarà il suo unico concerto per questa property.

“È un colpo di scena pazzesco per me perché non mi sono mai concesso tanto, ma sto vivendo una fase di studio e di preparazione, per la nuova stagione della trasmissione ma non solo, anche per altri miei progetti autunnali. Però ci tenevo a questo concerto a Roma, la città che mi ospita da tanti anni”.

Un concerto di improvvisazione totale: anche nella struttura si annuncia improvvisato.

“Butto sempre giù una scaletta ma poi faccio in modo di tradirla quando sono sul palco, voglio decidere sul momento anche perché son da solo e non ho motivo di mettermi regole troppo rigide. Ho una scaletta di brani per lo più nuovi che ho scritto proprio in questi ultimi giorni e anche di brani che non suono molto spesso. E’ un concerto inedito, direi. Quello che rimane è il finale, dove io sempre per tradizione chiedo al pubblico cosa vorrebbe ascoltare e cerco di fare un medley di brani su richiesta”.

I nuovi brani diventeranno un album, a breve?

“E chi lo sa? Dipende anche dalla reazione del pubblico. E dalla mia, se cioè mi diverto a suonarli. Il pubblico è fondamentale, sempre. Se suono è per il pubblico: loro hanno fatto un gesto ricco di fiducia, pagando un biglietto e tenendosi la serata libera, fidandosi di me. Quindi sta a me a quel punto dar loro qualcosa. Ed è ciò che faccio quando suono”.

Lei ha registrato molti dischi dal vivo, uno si intitola Orvieto, memoria di un concerto con Chick Corea per Umbria Jazz Winter. Nel suo ultimo album, Blooming, uscito un anno fa, c’è un brano che si intitola Cicco Rio: un omaggio?

“Sì, si tratta di un omaggio affettuosissimo, come cube anche il titolo, che conteneva anche l’concept di Rio de Janeiro, mi sembrava divertente. Chick è uno dei primi pianisti di cui mi sono innamorato, che ho studiato, che ho trascritto, che ho cercato di avvicinare. E poi quando mi sono trovato a suonare con lui è stato di una facilità imbarazzante, perché è un musicista talmente grande che riesce a mettere tutti a proprio agio. Ricordo che per il primo concerto abbiamo provato 15 minuti e da lì in poi abbiamo fatto circa quindici concerti, compreso quello del disco. E sempre io mi sono sentito a casa, con una persona che alla sua tenera età nei momenti liberi continuava a studiare, parlava di musica, dei musicisti che amava, period attento, curioso, una persona incredibile, mi sono sempre detto: speriamo di arrivare così alla sua età”.

Considerando il suo percorso artistico, dal pop al rock al jazz, non sembra fuori luogo chiederle un giudizio sullo stato della musica oggi.

“E’ una domandona. Se si considera dal punto di vista dei generi, sono definizioni comode per parlarne ed eventualmente scriverne ma io tendo a dimenticarle quando si suona, anche se per comodità l’industria tende a dividere un genere dall’altro. Dare invece un giudizio su tutta la musica risulterebbe troppo generico, però se vogliamo restringere il discorso per dare un giudizio sul pop da classifica, quello sostenuto dall’industria musicale e dai expertise televisivi, mi interessa poco perché è un mondo con regole troppo exact, per i miei gusti, dalla durata di un brano fino ai temi che una canzone deve avere, al modo di presentarsi di un artista. In tanti, ragazzi e meno ragazzi come me, preferiscono tenersene fuori. E’ un sistema, e ci vuole, perché così c’è gente che ha la possibilità di tenersi fuori dal sistema”.

Ci sarà una quarta edizione di By way of dei matti n° 0?

“Sì, non sappiamo ancora quando partirà ma il programma ci sarà. E’ incoraggiante e un privilegio poter ancora portare musica nelle case della gente, a quell’ora”.

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Un ospite per sera: nelle tre edizioni quali sono stati gli incontri più emozionanti per lei?

“I due che mi hanno commosso di più sono stati Fabio Concato e Vinicio Capossela, ma non è stata una vera sorpresa per me, dovevo aspettarmelo perché sono due fra le voci che mi emozionano di più. Alle show di Vinicio dell’adattamento di L’absent, il pezzo di Gilbert Bécaud su un amico che non c’è più, sono addirittura scoppiato in lacrime perché avevo appena perso un amico e Vinicio cantando quelola canzone mi ha stritolato, mi ha strizzato come uno straccio. Una coltellata molto lenta. Tra l’altro il pezzo di Bécaud non lo conoscevo neanche, sono sincero”.

Per suonare una cowl bisogna necessariamente conoscere l’originale?

“Non c’è nessuna legge, per fortuna, a me è capitato di fare cose in Danimarca per il disco Gleda di cui non conoscevo l’originale, e forse non lo conosco tuttora. Anzi, forse per un musicista è addirittura meglio non conoscere l’originale ma reagire sul momento”.

Tra tante collaborazioni, per lei un momento di svolta è stato senz’altro l’incontro con Enrico Rava, con il quale ha inciso 15 dischi. Deve a lui il passaggio dal pop al jazz.

“Enrico in quegli anni mi ha fatto conoscere tutte le persone più importanti per la mia carriera. A cominciare dal mio supervisor, Mario Guidi, che period anche il suo supervisor. Incidendo con lui ho conosciuto i produttori della Label Bleu, e poi anche il produttore discografico Manfred Eichmann della ECM. E’ stato insomma importantissimo per la parte pratica ma poi c’è l’altra parte importante, la sua aura da maestro che Enrico ha senza mai farla pesare: il suo tramandare avviene naturalmente, non sale mai in cattedra, è stato e continua advert essere per me un fratello maggiore favoloso. E’ forse il musicista, tra quelli che io conosco, più attento al valore delle pause, quindi di grande insegnamento”.

Qual è il suo rapporto con la parola maestro? La imbarazza se glielo dicono?

“C’è chi mi chiama maestro da quando mi sono diplomato, in teoria si usa così, e avevo vent’anni. Quindi mi ci sono abituato. Ma a vent’anni mi faceva ridere, di conseguenza mi fa ancora sorridere”.

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