Seydou Sarr, diciott’anni, è arrivato in anticipo nell’ufficio della produzione Archimede di Matteo Garrone, un open area con cucina, luminoso e colorato. «Tra i miei difetti c’è quello di essere sempre in ritardo», sorride. È a Roma per vedere un’amica, ma vive a Fregene da un anno e quattro mesi, a casa della signora Donatella, la mamma di Matteo Garrone «che ormai è un po’ la mia madrina, mi ha insegnato l’italiano». Il giorno dopo l’annuncio che Io capitano — il viaggio epico di due ragazzi senegalesi verso l’Italia — è entrato nella cinquina degli Oscar per il miglior movie internazionale, Seydou è sereno, il successo non ne ha intaccato la purezza, l’umità: «Tutto questo mi rende felice, ma non mi ha cambiato. Sono stato sommerso di messaggi, c’è tanta gente che crede in questo movie». Comprende l’importanza del nuovo viaggio a Hollywood, ma confessa che se ne starebbe volentieri a casa «mi fa paura volare, alle cerimonie preferisco la quiete di Fregene e la pasta alla checca o il ragù di Donatella».
Garrone temeva il fatto di essere un regista bianco occidentale a raccontare la vostra storia.
«Si è messo subito in ascolto, al servizio della nostra storia. Voi siete abituati a vedere le barche che arrivano, lui ha fatto il movie per raccontare tutto il viaggio e le storie che ci sono prima».
Le ha cambiato la vita.
«Sì. Da quando sul set mi pensavo incapace e ho scoperto che con lui tutto period facile, naturale. È simpatico, soprattutto ci guarda come figli. Con lui ho girato il mondo. Prima sognavo di fare il calciatore, ora vedo la possibilità di continuare col cinema. Dovrò studiare, lo so. Intanto mi alleno in palestra, anche perché sono nella nazionale degli attori dove gioco da difensore, mentre prima ero centravanti come il mio idolo Osimhen. Qui sono andato a vedere qualche partita della Roma, Lukaku. Il momento più strabiliante di tutto il tour del movie è stato a Madrid, allo stadio Bernabeu: non ci potevo credere».
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Il suo sogno da calciatore period piuttosto concreto.
«Mio padre mi ha insegnato da piccolo. Ho passato una selezione importante per la nazionale senegalese, ho giocato due partite per la Coppa d’Africa dei piccoli, sotto i quindici anni. Quando stavo per salire di categoria e passare agli beneath 17 papà è morto, ho dovuto rinunciare. In comune la recitazione e il calcio hanno il fatto che comunque si tratta di un gioco».
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Il movie sta per essere distribuito in cinquanta paesi africani.
«Sì, è già uscito in Tunisia e Marocco, a Dakar in Senegal, in Burkina Faso. E stiamo coinvolgendo tutta la popolazione locale che ha lavorato al movie a fare anche la première e la promozione in Gambia e Camerun. Tutto questo mi rende orgoglioso, soprattutto sono è importante che tanti ragazzi che, come me, non conoscevano il pericolo delle migrazioni clandestine, con questo movie lo toccano con mano».
Diventerà famoso in tutta l’Africa. Vorrebbe fare l’attore lì?
«Per ora mi interessa stare in Italia. Vado a trovare mia madre durante le feste tradizionali, e poi mia sorella vive a Napoli, lei faceva l’attrice è stata lei a mandarmi a fare il provino. È molto orgogliosa di me».
Ha mai percepito qualche forma di razzismo nei suoi riguardi?
«Mai, forse perché vivo a Fregene. Mi hanno detto amici che forse esiste al Nord. Ma non lo so».
L’Italia è come la immaginava?
«La conoscevo attraverso Instagram e mi sembrava tutto bello, perfetto. Arrivato qui mi sono accorto della realtà, la gente che dorme per strada e anche un senso di povertà».
E Hollywood? Sta per partire per il terzo viaggio promozionale.
«Sinceramente ai Golden Globe mi sono annoiato. E non c’period nulla da mangiare. Ho fatto incetta di hamburger e coca cola in albergo. Non conosco gli attori americani, non vado pazzo per Los Angeles e San Francisco. Invece New York mi piace, c’è una grande comunità senegalese, sono stato benissimo. Ma ho fatto incontri interessanti, Zoe Saldana — la conoscevo per Avatar –e il forged di Anatomia di una caduta, il regista spagnolo Bayona. Sono andato a cena con Sean Penn, mi ha preso le mani e si è inchinato, mi ha detto che ho un grande talento. Vorrei lavorare con Omar Sy, ho adorato la serie Lupin».
Qualche disavventura?
«Quando stavo partendo dal Senegal a Parigi e non mi volevano lasciare andare perché dicevano – ma no nera vero – che i documenti non erano a posto…q uel giorno ho pianto. Ma alla fantastic sono partito».
Il suo sogno?
«Guadagnare tanti soldi per aiutare tutti in Senegal».
La notte degli Oscar indosserà uno smoking o un abito tradizionale come alla Mostra di Venezia?
«Non so, ma in valigia un abito che rappresenta il mio Paese ci sarà».
Nel cuore le è rimasta la scena nel deserto quando nel deserto tiene tra le braccia la signora, che vola through.
«Sì, perché mio padre è morto così, tra le mie braccia. In quel momento, sul set, continuavo a vedere lui. Lui e mamma erano separati, lui viveva in una cittadina vicina. Mia sorella mi chiama e mi cube di correre, lo trovo sdraiato, lo abbraccio. Lui cerca di parlare, ma non ci riesce. Faceva il giardiniere. Aveva due sogni, avere i soldi per mandarmi a giocare a calcio in Europa e aggiungere qualche digital camera in più alla sua casa, ne hanno solo due e sono in tanti. Vorrei farlo io. E questo viaggio verso l’Oscar, che è già una vittoria, lo dedico a lui».