Nino D’Angelo: “I portoni della povertà li ho sfondati con la speranza. Miles Davis period un mio fan”

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Nino D’Angelo, core pazzo, ex scugnizzo biondo, lei porterà “I miei Meravigliosi anni 80…e non solo!” in un unico concerto allo Stadio Diego Armando Maradona, il 29 giugno. Una information importante?

«È la festa di San Pietro, e io sono nato a San Pietro a Patierno, “‘o quartiere d’‘e scarpari”, tutti calzolai. Period distrutto dalle bombe, giocavo con ragazzini senza braccia o gambe. Mi ha regalato una famiglia splendida e la bellezza della povertà».

Che c’è di bello nella povertà?

«Ti fa arrivare alla felicità subito, basta una piccola cosa. Al contrario della ricchezza, che stanca. Noi abitavamo in otto in una stanza, la disoccupazione per coinquilina. Non c’period tempo per la noia».

Suo padre, operaio, non credeva nel suo talento?

«Non credeva nel merito, è diverso. Da rassegnato, si fidava più della raccomandazione. Siccome non ne avevo, per proteggermi dalle delusioni, diceva che non sarei andato lontano. Io invece, con la speranza, ci aprivo i portoni. E lo smentii. Ma sul fatto che eravamo poveri fra i poveri aveva ragione»

Quando lo capì?

«A Pasqua, da chierichetto, andai con il prete a benedire le case. Chiesi a Padre Piscopo dove dovevo mettere le offerte. Mi rispose: “A casa tua”. E io: “Ma i soldi non vanno ai poveri?” E lui: “Perché, tu cosa sei”?»

Il primo lavoro a 14 anni.

«Prima di cantare ai matrimoni e nei ristoranti, lavoravo in una fabbrica di suole e vendevo caffè sui treni Napoli-Formia, ma fu vendere gelati alla stazione centrale che mi formò»

Come?

«Incontravo fratelli inguaiati e scelsi da che parte stare. La strada non è un luogo, è vita. È quando ti dividi una sigaretta e la disperazione. Vedevo vagoni di migranti, in lacrime verso la Germania».

Si sente vicino ai nuovi migranti?

«Scherziamo? Esistono le persone, non i numeri. Nunn’è a stessa cosa dicere “duecento morti” o “duecento persone morte”. Non lo è. Dove c’è la sofferenza, bisogna avere rispetto».

Famiglia e voto a sinistra sono stati i suoi pilastri?

«La famiglia è salvezza. A nonno Gennaro chiedevo «Ma chi track ‘e comuniste?» e lui «Tutti quelli che la pensano come noi». Sono stato di sinistra per amor suo, poi per valori. Oggi però, più che ideali, vedo politici»

Chi ideò il caschetto biondo?

«Dicevano: bella voce, ma non tieni il fisico. Il parrucchiere del rione, Enzo, mi fece un look ossigenato. Mi sentivo curioso, ma divenne l’emblema del mio personaggio».

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Nel 1976 il primo disco. Con la colletta di famiglia.

«Diedi 500mila lire al produttore, che morì il giorno dopo. Pensai a un “pacco”, invece period vero. Mia madre e mio suocero s’indebitarono per rifinanziarmi. Per risparmiare, mammà faceva la colla con acqua e farina, poi attaccavamo le copertine ai dischi e li andavo a vendere, fingendomi il fratello di quello in foto. Un successo».

Anche il suo murale nasce da una colletta. Il popolo la sostiene?

«Io sono il frutto di quelli che non contano. Talmente tanti sulla terra, che riescono a costruire fenomeni come Nino D’Angelo. È un’opera di Jorit, stesso avenue artist di Maradona».

Con il napoletano d’Argentina fu subito amicizia?

«Quando Diego arrivò, lesse sui muri: “Napoli tre cose tene belle: Maradona, Nino D’Angelo, ‘e sfugliatelle”. Volle conoscermi e ci riconoscemmo, uniti dai racconti di fame. Amava i brani di Sergio Bruni. Gli cantavo Carmela anche quando stava a Dubai. Gli dedicherò Campio’ nel suo stadio, un additional al tema anni 80».

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Tempi in cui lei period snobbato.

«Vendevo più di tutti, milioni, ma in television non mi passavano. Ero il terrone. Non esiste muro più alto del pregiudizio».

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Non erano criticabili i suoi musicarelli?

«Raccontavano di me e chi come me sognava di comprare casa ai genitori. Mario Merola mi elesse erede della sceneggiata, ma io volevo rivolgermi ai giovani e cantare d’amore. Inventai il pop napoletano: una rivoluzione».

C’è chi considera “Nu denims e ‘na maglietta” del 1982 matrice del neomelodico.

«Il neomelodico è anni 90, quando trattavo temi sociali che con quel genere non c’azzeccano niente. Magari misi un seme, una generazione è cresciuta ascoltandomi»

Senza lei, esisterebbe Liberato?

«Forse no. I testi, le storie, sembrano quelle dei movie miei. E non lo dico per sminuirlo. Mi piace».

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A Sanremo andrà Geolier.

«Sono felice che canti in napoletano. Una lingua, non un dialetto. Io fui il primo a farlo, mi attaccarono tutti».

Dagli anni 90 però fu rivalutato.

«Sono cresciuto. Ho una passione per Peter Gabriel e la world music, canto gli ultimi. Portai a Sanremo Senza giacca e cravatta, mi chiamò Pino Daniele: “Queste so’ le cose che devi cantà!”. Poi ho vinto il David e il Nastro d’Argento per le musiche di Tano da morire, lavorato con Pupi Avati. Ah, gli incontri culturali».

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Importanti?

«Se nasci in un posto di sconfitti, difficilmente vinci, perché la vita non è leale. Ma con la cultura cresci, ti difendi. Altrimenti, tutti pecore».

Tra i riconoscimenti, c’è quel genio di Miles Davis.

«Sentì una canzone in taxi a Palermo e comprò la mia discografia. Anni dopo venne da me il tastierista Billy Preston. Mi aveva sentito advert una festa a casa di Miles e suonò nella mia Chicco di caffè. Non lo conoscevo. Scoprii che period il quinto Beatles»

Gli cantò la sua versione di “Let It Be”?

«No, non l’ho mai incisa. La facevo in oratorio. Non sapendo l’inglese, la trasformai in “Gesù Cri”»

E la star del cinema Harvey Keitel?

«Lo portai al mare, a Santa Lucia, e tutta la gente a gridare: Nino! Nino! Il mio impresario, per non farcelo restare male, disse che Harvey a Napoli si traduce Nino».

Allo stadio Maradona riarrangerà i suoi brani?

«No. Sarà un karaoke d’amore fedele agli originali. Perché quel Nino lì si è preso solo i cazzotti, e io le carezze. È tempo di restituirgliele».

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