Vincenzo Mollica: “Camilleri mi ha insegnato la memoria dei colori per vedere nel buio”

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Girare con lui per Sanremo period un’impresa: “C’è Mollica!!!”, e vai con saluti, baci e abbracci. Rockstar formato famiglia. «Vabbè, sono stato in television per una vita, l’affetto è reciproco». Per gli amici è “il presidente”, soprannome che lo fa ancora ridere. Vincenzo Mollica è entrato a far parte della redazione del Tg1 nel 1980, gavetta agli Esteri con Enrico Mentana («assunti a due giorni di distanza») poi cronista agli Spettacoli: amico di Fellini, Benigni, Fiorello, Celentano, un legame speciale con Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Appassionato di fumetti, su Topolino è diventato Vincenzo Paperica: «È la cosa di cui vado più orgoglioso». Settanta anni, nato a Formigine in provincia di Modena, cresciuto in Canada, porterà in scena una vita ricca di incontri con lo spettacolo L’arte di non vedere, l’11 gennaio a Roma all’Auditorium Parco della Musica e il 15 a Milano, all’Arcimboldi.

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Vincenzo, perché questo titolo?

«Perché da un po’ mi accompagnano tre delinquenti: la cecità, il diabete e il Parkinson. “Omerico non lo sarò mai per le poesie ma per mancanza di diottrie”, “Mi fido ciecamente” ormai lo posso dire finalmente. Che cube?».

Che la sua arma è l’ironia?

«Sempre. Quando ho perso la vista, Andrea Camilleri, che ha avuto lo stesso guaio, mi incoraggiava: “Vincenzino, non perdere la memoria dei colori, ricordati il rosso, il bianco, il giallo. Sognali. Tutto sarà a più fuoco”. Ricordo l’ultimo incontro a casa sua: “Ti voglio abbracciare”. Non vedevo io e non vedeva lui. Valentina Alferj, la sua assistente, ci fece toccare con le mani. Me lo porto sempre in tasca quell’abbraccio, quando le giornate si fanno più scure. Ma ignoro cosa sia la depressione».

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Nel suo saluto in sala stampa a Sanremo, nel 2020, quando è andato in pensione, ha citato Fellini: “Non sbagliare mai il tempo di un addio o di un vaffanculo. Se lo sbagli di un solo secondo ti si potrebbe ritorcere contro”. Ha seguito la massima?

«Permanentemente. Un’altra è mia e gliela consegno: al saluto al Tg1 ho ringraziato i colleghi e i figli di mignotta. Si ricordi, avendo preso la strada opposta, che vanno ringraziati anche quelli».

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Sarà fatto. Che combina nello spettacolo?

«Qualche editore sconsiderato mi ha proposto di fare un libro ma non sono il tipo da autobiografia. Racconterò un po’ di cose, vado in scena prima che mi dimentichi tutto. Ci sono io, una sorpresa, ospiti, i filmati che hanno accompagnato la mia vita e quello che mi manderà nella testa il Padreterno. Da quando la vista mi ha salutato, ho capito quanto contano la memoria e gli altri sensi. Aiutano a vedere, perché quello che non vedi, lo immagini. Fellini diceva: “Nulla si sa, tutto si immagina”, entri in un’altra dimensione».

La intimorisce il pubblico?

«Sono fortunato, ho un rapporto bellissimo con il pubblico. Sono andato in pensione da tre anni, è come se non ci fossi mai andato. Mi hanno adottato».

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Anche tanti amici famosi.

«Benigni è un poeta, quello che tocca diventa luce e emozione, Fiorello fiorellizza, con l’ironia fa fiorire i prati. È un regalo della vita. Ti sveglia ogni mattina col sorriso, ti fa vedere quello che è sotto gli occhi e non vedi. È una fortuna avere amici così, come è stato fondamentale per me Celentano».

Con Mentana siete entrati insieme al Tg1. Vi sentite ancora?

«Siamo rimasti amici con lui, Clemente Mimun e Lamberto Sposini. Ho una stima infinita per Enrico, abbiamo vissuto nove anni al Tg1, andavamo tutte le sere a mensa con due tecnici con cui facevamo la notte, uno period cattolico e uno ateo. È il più grande telegiornalista, furetto della memoria».

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La Rai, che è stata la sua casa, non sta vivendo una stagione brillante.

«Per me il servizio pubblico, dal primo giorno che sono entrato, è stata la mia bandiera, la mia guida, la mia verità, e a questo mi sono sempre attenuto. La Rai deve fare servizio pubblico».

Le dispiace quando dicevano: “Mollica buono come il pane”?

«Ho fatto il cronista, non il critico, e come story mi identifico ancora oggi. Ho saputo ascoltare chi avevo davanti. E rispetto le opinioni degli altri, le critiche sono utili. Mi hanno guidato passione, dedizione, curiosità, fatica, le regole che mi ha insegnato Enzo Biagi. Ho lavorato con lui a Linea diretta nell’83, un maestro di giornalismo e di vita. Primo giorno: “Chiama Paulette Goddard, sai chi è?”, forse voleva mettermi alla prova. “Certo, l’attrice di Tempi moderni”. La signora risponde, lunga chiacchierata e alla wonderful mi fa: “Il signor Biagi sa benissimo che non farò mai l’intervista. Ho parlato con lei perché mi è stato simpatico”. Vado da Enzo, gli comunico: “Non parla, l’aveva già detto”. Lui: “Vincenzo, comincia da Dio, che a scendere si fa sempre in tempo”».

Le persone più importanti della sua vita?

«Mia moglie Rosa Maria, sposata nel ‘77, e mia figlia Caterina: i cardini della mia esistenza. Mi hanno aiutato a crescere e a capire la vita. Con mia nonna, che faceva la fruttivendola e mi diceva sempre: “Ascolta le cose che rimangono, non badare alle sciocchezze”».

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