‘The Crown’, ridateci Elisabetta e la crisi del Canale di Suez

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La morale di The Crown (sesta e ultima stagione con i primi quattro episodi su Netflix) somiglia a quella che attraversa tutte le vicende umane: un conto è rievocare come nelle prime stagioni una storia lontana e con zero o quasi riscontri mediatici, allora. Un altro è stringere verso il presente, mettere Diana Spencer al centro di tutto e lì, l’impatto mediatico di allora presente nella memoria di ogni spettatore si riverbera implacabile.

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Anche perché un conto è quello che tutti avevano sotto gli occhi, un altro sono i passaggi privati, essenziali, di quella storia. E per molti di questi, nei quali l’autore Peter Morgan — un vero lupo di mare — esercita il suo “diritto alla verosimiglianza” verrebbe più volte da invocare: ridateci Elisabetta giovane e la crisi del Canale di Suez. I tempi cioè nei quali, con efficacia suprema, The Crown aveva rievocato la Storia con la maiuscola, la gestione quasi mitica del Regno, la sua politica internazionale. E poi sì, anche le vicende personal, anche le abdicazioni per sposare le americane, ma tutto ormai cristallizzato in un racconto da vecchi rotocalchi, al massimo, e da libri di Storia per le parti decisive.

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Saltare al 1997 con cui inizia questa ultima stagione è quasi traumatico, si diventa pressoché guardoni, si attendono i passaggi cruciali per confrontarli con la memoria personale: e non è la stessa cosa. Si fa in tempo a rimanere sbigottiti per la somiglianza quasi soprannaturale di Elizabeth Debicki con la vera Woman D, si prende nota di quanto venga trattato bene Carlo, si palpita per i personaggi principali che passano da un annus horribilis all’altro, ci si intenerisce per William e Harry. Ma è davvero un’altra storia, da portare a compimento quasi per dovere. E stavolta, prendendosi meno rischi possibili: aveva già fatto tutto la realtà, a suo tempo, e soprattutto il suo racconto puntuale e invasivo verso il mondo intero.

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Puntata di Propaganda Stay, l’altra sera su La7, l’ospite musicale è Bombino, non si fa in tempo a pensare “speriamo che faccia Ayes Sachen” e lui imbraccia la chitarra e partono le prime word. A volte la televisione ha quasi un senso, diciamo.

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