“Parlesia”, da Pino Daniele a Clementino ecco la storia della lingua segreta della musica napoletana

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Per sedare il pericolo di un mancato pagamento o per dare l’intenzione giusta a una canzone, per richiamare la band all’ordine o per farsi gioco del malcapitato di turno, non importa. Quando una lingua segreta si rivela è sempre accompagnata dallo stupore. Come, per esempio, quello che potrebbe seguire alla fase: “Guagliù, pusate l’allerosa che ‘a signora chiamma e ‘ggiustine”, che nell’indecifrabile Parlesia – la lingua segreta della musica napoletana, sconosciuta a gran parte dei napoletani stessi e di cui Valeria Saggese traccia la storia nel suo nuovo libro (Minimal Fax) – si potrebbe tradurre con: “Ragazzi, basta suonare la chitarra altrimenti la vicina si rivolge alle forze dell’ordine”. Gergo dei musicisti e di chi ha a che fare con musica, la parlesia è uno dei tanti codici che attraversano Napoli, uno dei tanti modi di guardare e di interpretare la città.

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La copertina del libro

 

E seguirne le parole, l’uso e l’evoluzione significa entrare in una dimensione che consente una vicinanza inusuale a quei musicisti che a Napoli e da Napoli hanno (più volte) rivoluzionato il suono della musica italiana. E allora si va dal restio a spiegarne temi e significati James Senese a chi come Enzo Gragnaniello ne denuncia l’uso ormai svilito: “Solo Pino poteva permettersi di usare in pubblico la parlesia”. S’intende Daniele e nel libro della Saggese, la sua opera viene letta come quella di chi ha sdoganato un linguaggio intimamente musicale: idoneo a creare senso con il suono e non solo con il significato. E poi si va a Tony Esposito e Tullio De Piscopo, agli Osanna e a Eugenio Bennato, Fausta Vetere. Fino a Clementino e Gnut, ultimi depositari del gergo, passando per chi la parlesia la utilizza anche “altrove”: sul palcoscenico dei teatri e si pensa a Marisa Laurito e a Vincenzo Salemme.

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Enzo Gragnaniello (foto di Riccardo Piccirillo)

 

“Lingua iniziatica”, la definisce Gino Castaldo nell’introduzione al libro, utilizzata “con l’ironica soddisfazione dell’artista che per una volta si fa imbroglione dopo essere stato a lungo imbrogliato”. Lingua che ha una storia lunga, radici nel gergo dei posteggiatori – i musicisti di strada – che a loro volta con ogni probabilità saccheggiarono il codice occulto dei magliari, i commercianti di stoffe che da Napoli attraversarono il mondo e nel mondo dovettero imparare a sopravvivere. Lingua che diventa, dopo la seconda guerra mondiale, modalità dei musicisti per “fare gruppo”, prima nel mondo dei membership gestiti dagli alleati, poi in quello attraversato da impresari cinici e cattivissimi – i famigerati “baconi” – che, di solito, non pagano o pagano troppo poco. Lingua che infine, rivelandosi, restituisce alla musica “una funzione di inclusione”, segno che in questi tempi abitati da ben altri “baconi” è quanto mai prezioso. E nella consapevolezza che una rivelazione, spesso, nasconde la nascita di altri segreti. Per incontrarli, basta solo fare attenzione. Ovvero: addove!

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