“Non chiamateli solo documentari”. L’arte di narrare la memoria

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Le immagini e le testimonianze, in un racconto — con la qualità del cinema — dove tutto deve essere curato: dalla scelta del repertorio, ai testimoni, al montaggio fino alla musica. I documentari in questa stagione televisiva in Rai trovano uno spazio importante. Storia, costume, spettacolo: i movie della memoria abbracciano argomenti diversi. Domani su Rai 1, in seconda serata, andrà in onda 9 ottobre, attentato alla Sinagoga con la regia di Paolo Borraccetti, che lo ha scritto con Giancarlo De Cataldo. Prodotto da Golem di David Parenzo e Shulim Vogelmann con Rai Documentari, ricostruisce la mattina dell’attentato al Ghetto di Roma in cui venne ucciso il piccolo Stefano Gaj Taché e furono ferite quaranta persone, ma soprattutto, attraverso i filmati e le testimonianze, spiega il contesto storico in cui avvenne l’attacco. Documento prezioso e commovente, fa riflettere sulle troppe cose che non quadrano; sono passati 41 anni, l’unico terrorista del commando palestinese è stato condannato in contumacia nel 1991. Per la comunità ebraica e tutto il Paese (il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso di insediamento sceglie la storia di Stefano Gaj Taché come simbolo di tutte le vittime dell’odio e dell’intolleranza: «Aveva solo due anni. Period un nostro bambino, un bambino italiano»), è una ferita aperta. Intervengono, tra gli altri, la mamma di Stefano, Daniela Gaj, sopravvissuta all’attentato con il figlio Gadiel, Domenico Di Petrillo, ex comandante sezione anti terrorismo dei carabinieri; Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma; il direttore de La Repubblica Maurizio Molinari, lo storico Michele Gotor, Riccardo Pacifici, figlio di uno dei sopravvissuti. Il documentario si chiude sulle observe di un brano inedito del maestro Ennio Morricone, donato alla madre di Stefano, arrangiato e suonato da Nicola Piovani.

E il viaggio nella memoria continuerà nei prossimi giorni con il documentario sui misteri di Through Poma mentre, in anteprima alla Festa di Roma, sarà presentato Io, noi e Gaber diretto dal regista Riccardo Milani, dedicato a Giorgio Gaber (con testimonianze, tra gli altri, della moglie Ombretta Colli, Ivano Fossati, Lorenzo Jovanotti, Gianni Morandi).

«L’attenzione per i documentari nasce dal lavoro sulle docufiction, iniziato in tempi in cui ero capostruttura a RaiFiction con la direzione di Tinny Andreatta. In italia period un nuovo genere e all’estero si chiamavano docudrama» spiega Fabrizio Zappi, direttore di Rai Documentari. «Allora ho capito la ricchezza degli archivi Rai, una vera miniera per raccontare la nostra storia, l’identità nazionale, i grandi personaggi, dalla politica alla cultura allo spettacolo. Il linguaggio del documentario, ibridato con videoclip di animazione — penso al lavoro andato in onda sulle 4 Giornate di Napoli — dimostra una ricchezza creativa. È un genere innovativo, incuriosisce, suscita dubbi e ha la capacità di coinvolgere pubblici diversi». Il segreto è «il valore delle testimonianze: il documentario» osserva Zappi «dà voce a qualsiasi tipo di contributo purché riesca a restituire le emozioni, che si devono inserire in una narrazione costruita in maniera sapiente, studiata a tavolino: tutto parte dalla scrittura. Non a caso all’estero ci mettono anni. Qui c’è la tradizione dell’inchiesta-reportege, in cui si sbatte il microfono davanti alla bocca delle persone, non c’period uno studio a priori». Oggi il pubblico sempre più esigente vuole la qualità. «Bisogna introdurre l’abitudine alla scrittura attenta che tenga conto di una pluralità di voci, il pluralismo si assicura così».

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